IL GIUDICE EMOTIVO

5. Alla ricerca delle cause dell'errore giudiziario.

Il giudice emotivo. La decisione della ragione ed emozione. (Il mulino editore)

Autori: Antonio Forza, Giulia Menegon, Rino Rumiati. 


(Pagina 141)

Gli studiosi del processo penale individuano solitamente le cause dell’errore giudiziario in una pluralità di fattori interni al procedimento, destinati a influire sull’esito del processo. La decisione errata viene ricondotto di regola ad uno sbandamento da parte del giudice rispetto a quel itinerario della ragione scandito dalle citate regole epistemologiche, dirette a definire in termini positivi il rapporto tra probabilità e prova penale: a partire dall’elemento di prova fino al risultato di prova, secondo adeguati criteri di inferenza, quali la massima di esperienza, la legge statistica, la legge scientifica di più o meno alto grado di attendibilità empirica. Cause riconducibili al comportamento umano, colpevole o colpevole, ma anche cause dovute al gioco delle coincidenze, le false apparenze ho delle vere e proprie fatalità.

Le cause vengono di norma condotte al sistema processuale e, in qualche caso, individuate in fattori estranei al processo, quali l’influenza della stampa, dei mezzi di comunicazione di massa e, più recentemente, della rete.

Nel nostro paese l’accentuata spettacolarizzazione dei processi penali è sotto gli occhi di tutti.

Franco Cordero, sommo studioso del processo penale, con toni preoccupati, così ritraeva gli effetti della spettacolarizzazione: forse, sapendo si guardarti, pubblico e difensori gestiti ora non ho più perduto, poco male tutto stessi: il pericolo è che perdano la testa i testimoni; oh lavoro enorme pubblicità ubriachi ti giudica, togato o non.

L’uso mediatico del processo rappresenta una iattura sia per l’imputato sia per la giustizia e questo fattore viene ritenuto, a ragione, tra le cause dell’errore giudiziario. Mentre nel processo reale l’imputato è assistito dalla presunzione di Piacenza, nel processo mediatico, gravido di ombre inquisitorie, egli è costretto a discolparsi per contrastare una potenziale deriva giustizialista.


… così è scritto sul fatto che il giudizio conclusivo di un processo è un fatto perlopiù intuitivo e non razionale, come aveva già fatto l’Altavilla all’inizio del secondo scorso.

Meritano di essere ricordate a tal proposito le seguenti considerazioni di Calamandrei secondo il quale, al di là di casi patologici, agisce sempre, anche su un giudice che crede di fare giustizia… l’influsso di ragioni non confessate neanche a se stesso, di simpatia o di ripugnanza inconsapevole, che lo guidano in anticipo quasi per intuizione, a scegliere, tra più soluzioni giuridiche che il caso comporta, quella che corrisponde a questo suo occulto sentimento. Il riferimento implicito va alle emozioni suscitate nel giudicante dalla vicenda umana, emozioni che, guardandolo in anticipo finiscono per condizionarlo inconsciamente.

Pochi, come Piero Calamandrei, hanno scritto della sentenza, senza giri di parole, fatto quasi, si direbbe, per dare un travisamento logico a una volontà nata da tutt’altri moventi che possono essere l’arbitrio e l’ingiustizia. E, a dir poco, folgorante l’intuizione di uno dei padri costituzionalisti secondo il quale il ragionamento che si trova nella motivazione della sentenza, potrebbe essere qualcosa che viene dopo che serve quasi a validare un’ipotesi già metabolizzato dal giudice.

In queste considerazioni si intravede quasi la teoria delle due menti E cioè la più recente documentata convinzione dei ricercatori secondo la quale prima si assumono le decisioni, a livello inconscio, e poi si vestono con una motivazione razionale.

Ancora, scriveva il Cappelletti nella motivazione legale, quella vera di una sentenza si trova tra le pieghe nascoste dell’animo del giudicante cioè nel sentimento del giudice. La libertà valutativa quindi, alla base del libero convincimento, diventa sinonimo di discrezionalità incontrollata, di intuizione personale, di sentimento, di emozione, se non addirittura di credo ideologico, di valori e di soggettive visioni del mondo.

… in Italia il primo errore giudiziario moderno, documentato, È quello che nel 1630 portò alla condanna a morte due cittadini milanesi, Guglielmo Piazza e Gianna Giacomo Mora. La storia lo ricorda come il cosiddetto processo agli untori, nell’occasione della peste di quell’anno. L’ipotesi di reato era quella di avere diffuso l’epidemia con unguenti. Di questo processo parrà profondamente Alessandro Manzoni nella storia della colonna infame, rifacendosi alla cronaca di Giuseppe Ripamonti.

Nel capitolo sesto del testo intitolato “I paraocchi della mente” gli autori vanno alla ricerca delle cause dell’errore giudiziario.

Gli effetti della visione a tunnel

(Pagina 147)

Si tratta della cosiddetta visione a tunnel, efficace espressione presa a prestito dagli oculisti. C’è chi l’ha chiamata il peccato capitale dell’investigazione e del giudizio. Per visione a tunnel si intende quell’insieme di tendenze sistematiche che impediscono di essere accurati nella percezione e, conseguentemente, nell’interpretazione degli eventi. 

.. l’espressione tunnel vision, è un fenomeno della mente che si sviluppa negli inquirenti, nei rappresentanti dell’accusa e infine nei giurati. 

E’ una tendenza sistematica alla conferma che induce i protagonisti della giustizia criminale a focalizzarsi su un sospetto, selezionare e filtrare le prove che giustificherebbero la sua condanna, ignorando, se non addirittura sopprimendo, le evidenze che viceversa dimostrerebbero la sua innocenza.

…Analogamente la tunnel vision agisce come una sorta di “paraocchi della mente” che impedisce una visione aperta a 360° sui dati a disposizione, selezionando - nostro malgrado - le informazioni sulla base di criteri del tutto irrazionali e inconsapevoli, deviando fin dall’origine il nostro pensiero.

La letteratura si riferisce, in particolare, a quella batteria di errori che vanno dal bias della conferma, alla perseveranza nella credenza, all’errore del senno di poi, al bias del risultato, all’effetto dell’ancora nelle decisioni.



Karl Popper , il grande filosofo austriaco della scienza, ha spiegato che per la validazione di una teoria scientifica lo scienziato non deve procedere ricercando le prove a conferma ma deve invece cercare di invalidarla, falsificando l’ipotesi iniziale.

Con il termine falsificare, nella prospettiva popperiana, si intende appunto andare alla ricerca di tutti i dati suscettibili di disconfermare un’ipotesi teorica che diventerà affidabile nella misura in cui continuerà a resistere ai tentativi di falsificazione.

Di fronte a ogni nuova situazione, infatti, come si è già visto, il nostro approccio è segnato da due tendenze. La prima, condizionata dalla spiegazione che ci balza subito agli occhi come la più probabile, ma che è irrimediabilmente limitata alla nostra esperienza, soggettiva, e quindi, statisticamente non attendibile. La seconda che, viceversa, ha a che fare con la nostra naturale propensione a cercare le conferme delle nostre convinzioni iniziali piuttosto che a trovare le prove negative che possono confutare.

Nel processo penale, la tendenza alla conferma e un pericolo che si affaccia sin dalle prime battute. Sul banco degli imputati siede già, un presunto colpevole, nonostante il tanto declamato principio di civiltà giuridica della presunzione di innocenza, fino a prova contraria. E il sistema processuale stesso che sembrerebbe adattarsi alla nostra stessa struttura psicologica. Mentre, al contrario, consapevoli dei limiti di tale inclinazione umana, gli operatori del processo dovrebbero essere sempre vigili del mettere costantemente in discussione il fondamento delle evidenze acquisite nell’indagine.

Gli elementi di prova di scarico

Nel nostro codice di procedura penale esiste in effetti una norma che fa carico al pubblico ministero di ricercare anche gli elementi di prova di scarico, a favore dell’indagato. Si tratta dell’articolo 358, norma che di fatto continua ad essere disapplicata.

Nel 2000 Giuseppe di Federico dell’università di Bologna condusse con i suoi colleghi un’ampia indagine tra gli avvocati penalisti italiani per fare il punto sull’applicazione degli istituti difensivi previsti dal codice, entrato in vigore poco più di 10 anni prima, cioè nel 1989. Tra i vari quesiti, posti ai difensori, vi era anche quello di riferire, sulla base dell’esperienza maturata da ciascuno degli intervistati, quante volte fosse stata accertata l’applicazione di tale norma da parte dei pubblici ministeri. Su un campione di 1000 avvocati la percentuale dei pubblici ministeri, che autonomamente aveva dimostrato di avere cercato prove a discarico, era del 2,1% mentre quella di chi cercava solo ed esclusivamente prove a carico dell’inquisito ammontava al 35,5%. La ricerca empirica forniva così una prima, deludente, conferma della mancata applicazione della norma.

Nel 2013, a distanza quindi di 13 anni, lo stesso gruppo di ricerca di Bologna ha riproposto a un campione di 2000 avvocati penalisti, il medesimo questionario. Nel risultato che gli avvocati continuavano a denunciare una gravissima violazione ai danni del cittadino, visto che i pm continuavano a non ricercare le prove a discarico, salvo un’ancora ridottissima percentuale del 3,2%. Mentre una percentuale del 14,5% continuava addirittura di ignorare le prove a discarico emerse durante l’indagine. Era evidente, quel punto, essendo trascorso quasi un quarto di secolo, e tale tendenza non poteva più essere semplicemente spiegata come un problema di rodaggio del nuovo codice di procedura. Piuttosto, i risultati della ricerca dimostravano come i pubblici ministeri continuassero, invece, a essere vittime di quell’inclinazione del pensiero, altamente pervasiva, E non solo ci porta selezionare quasi esclusivamente le informazioni che confermano la nostra ipotesi iniziale, ma che induce anche i nostri meccanismi mnestici a richiamare, Selettivamente, solo quei dati utili a supportare la nostra tesi. Ancora, essa ci spinge, senza che ce ne obbediamo, a interpretare gli indirizzi disponibili nel senso più favorevole ai nostri convincimenti.

Il caso italiano più clamoroso del tunnel vision è sicuramente quello del caso Tortora.

Tendenza nel processo alla conferma

p.155 – Kassin, Dror e Kukucka hanno analizzato, in un recente studio, l’influenza pervasiva che i pregiudizi hanno non solo rispetto ai testimoni o ai giurati, ma anche per i giudici professionali e per gli esperti nei vari ambiti delle scienze forensi. Hanno così coniato il termine “tendenza nel processo alla conferma”, per riassumere quell’insieme di effetti che possono derivare da un pregiudizio, una credenza o un convincimento preesistente. Hanno spiegato come questi fattori possano influenzare non solo la raccolta, ma anche la percezione o l’interpretazione delle evidenze probatorie, da parte dei protagonisti della vicenda giudiziaria, durante l’intero procedimento penale, cioè dalle indagini al dibattimento. E, aggiungiamo noi, l’influenza della percezione che ne ha l’opinione pubblica, attraverso il condizionamento dei media. Sinergia perversa che si riverbera negativamente sul processo.

Senno del poi

(Pagina 159)

Un altro frequente errore che concorre a dar corpo alla visione a tunnel è quello del senno del poi. Si tratta di una distorsione cognitiva, in base alla quale le persone tendono a considerare un determinato evento, fra i tanti possibili, più probabile o molto più prevedibile rispetto ad altri in realtà ugualmente possibili quando si è già verificato.

…In ambito processuale tutto ciò si traduce in una proiezione retrospettiva delle informazioni successivamente acquisite; in tal modo, inconsapevolmente, la prima embrionale ipotesi di colpevolezza formulata nel corso dell’indagine, ancorché destituita di reale fondamento, viene a essere rinforzata.

Effetto reiterazione

La certezza della bontà o della fondatezza di una tesi viene infatti rinforzata dal numero di volte in cui la stessa è ripetuta, E ciò indipendentemente dalla verità o falsità della stessa.

Cosi, quante più volte il pubblico ministero si sentirà ripetere dalla polizia giudiziaria la stessa circostanza come fondata, tanto più tenderà ad avere conferma della tesi iniziale È tanto più egli si convincerà della correttezza della sua prima intuizione. Nel contempo, sempre più difficile gli sarà prendere in considerazioni strade alternative.

Bias del risultato.

Si tratta di una tendenza sistematica che ci porta a proiettare nel passato le nuove conoscenze acquisite, senza che ci si renda conto dell’influenza delle nuove informazioni sulla nostra primaria percezione e su quanto già accaduto. 

… Le persone hanno la tendenza a rileggere il passato sulla base delle conoscenze acquisite in momenti successivi, senza considerare che le nuove conoscenze finiscono per modificare la loro adesione di quello stesso passato.

… la tunnel vision può innestarsi così fin dagli esordi e, come accade nel gioco del telefono senza fili, rischia di distorcere nel procedere processuale, sempre di più la verità storica a vantaggio di una verità processuale che sarà sempre meno sovrapponibile alla vicenda reale.

Il processo mediatico

Molti errori giudiziari, dunque, vengono generati da queste modalità di avvio dell’indagine.

Il pubblico ministero ragionerà, infatti, indizi raccolti dalle forze dell’ordine e non potrà, viceversa, considerare quegli indizi già esclusi da altri, magari ritenuti insignificanti in una fase iniziale delle indagini, rispetto all’ipotesi investigativa, frettolosa, formulata dagli inquirenti.

Gli stessi fattori non cognitivi, costituiti dalle pressioni esterne esercitate dai media e dall’opinione pubblica, come esercitano un’influenza sugli inquirenti all’inizio dell’indagine, così possono interferire sulle decisioni finali dei giudici. Le pressioni sociali, che vogliono il presunto autore di un reato comunque responsabile, spesso esercitano un condizionamento pesante. Gli organi di informazione annuvolo determinante in questo senso. E ciò è tanto più vero quanto un imputato sia sgradito all’opinione pubblica, magari perché appartenente ad un certo gruppo sociale, politico, religioso o una minoranza etnica.


Le numerosissime trasmissioni, che si occupano di casi di cronaca giudiziaria, anticipano informazioni, magari non sempre attendibilissime, sulle persone, sui fatti e sulle evidenze probatorie. Un simile compendio informativo è destinato a suscitare nel telespettatore emozioni di segno diverso. I mezzi di informazione, prima che la vicenda giudiziaria giunga alla conclusione, tendono a orientare la pubblica opinione che perviene autonomamente, spesso in via anticipata, ad un verdetto. Di regola le posizioni si dividono in modo manicheo tra colpevolisti e innocentisti.