FUGA DI FRANCO FREDA DA CATANZAO
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Esame Paolo Romeo
Le Interviste
Carlo Colella
Paolo Romeo durante la Rivolta fu distante e rappresentava per noi “boia chi molla”, il Partito istituzionale del MSI verso il quale avevamo molte riserve.
Ho letto, in un alcune carte giudiziarie, circostanze che riguardano la latitanza di Franco Freda a Reggio Calabria. Gli autori della ricostruzione della vicenda sono due pentiti, che per la quantità di notizie riferite potrebbero essere definiti gli unici storici della vita politica della destra nella città. Se non fosse che questi, non parteciparono mai agli episodi che hanno raccontato e mai hanno bazzicato, ne conosciuto, gli ambienti politici a cui fanno riferimento. Per la loro attività criminale, gli unici rapporti che hanno avuto, naturalmente, sono con le forze di polizia. Frequenza, che bisognerebbe evitare sia per i comuni cittadini come, in maggior misura, per chi serve lo Stato. La latitanza di Freda a Reggio Calabria, realmente avvenuta, viene assunta come prova contro Paolo Romeo che viene descritto, dai due soggetti opportunamente imbeccati, come massone, appartenente a Avanguardia Nazionale, aggiustatore di processi (escluso il suo), controllore di attività economiche e per di più separatista con un disegno politico simile alla Lega dei primi tempi.
Chi è stato vicino a Paolo, io il più prossimo, leggendo queste fantasie, conoscendo la verità, non possono che suscitare ilarità.
Queste accuse trovano le smentite nella nostra vita, che fu limpida e conosciuta sin nei minimi particolari. Sia agli amici come ai nemici. Chi organizzò la fuga di Freda da Catanzaro doveva garantire che la sentenza di condanna, che avrebbero dovuto pronunciare i magistrati, si sarebbe celebrata con gli imputati latitanti. Questo per superare alcune perplessità nel dovere condannare Freda e Ventura in assenza di prove. Tant’è che in appello, giova ricordarlo, a Bari, Freda fu assolto proprio per carenza di prove. La presenza di Freda a Reggio in clandestinità è costellata da una somma di episodi tra il goliardico e il politico. Passeggiate sul Corso Garibaldi, degustazione di gelati in centralissimi locali pubblici, conversazioni piacevoli sulla tradizione nazional rivoluzionaria. Offerta di ospitalità, direi, perché Freda non si nascose, non fu mai latitante, anzi mancò poco che rilasciasse conferenze stampa. Chi partecipò a quella gradevole accoglienza, oggi, a tanti anni di distanza, dovrebbe dichiarare il proprio coinvolgimento. Servirebbe a far capire quale fosse il vero ruolo di Paolo Romeo non diverso da decine di testimoni di quella vicenda.
Oltraggiosa e strumentale il riferimento alla mafia anche perché nulla abbiamo mai avuto da spartire con mafiosi o con chi li utilizza. Con Paolo ho avuto, assieme a tutti gli altri amici, una solidarietà fondata sulla intelligenza e sulla reciproca fedeltà e sulla eticità della pratica politica. Abbiamo cercato di arare grandi campi, non coltivare orticelli. Una amicizia fraterna e alle volte goliardica, e non mancava che deridevamo l’ordine burocratico costituito e i bacchettoni che ne erano a capo.
Credo nell’amicizia che è un valore assoluto.
Per capire da dove nasce il teorema che avrebbe danneggiato Paolo, mi ricordo che una volta eletto parlamentare del PSDI, un imprenditore, l’ing. D’agostino, che ho conosciuto durante la mia attività professionale nel carcere di San Pietro a Reggio Calabria. All’interno del carcere produceva prefabbricati con la mano d’opera dei detenuti, una persona cordialissima e coinvolgente, mi affermò che durante un convegno in un albergo in Provincia di Cosenza aveva sentito parlare di Paolo Romeo e di una indagine che “i servizi” stavano preparando e che avrebbe messo con le spalle a terra il neo parlamentare socialdemocratico. Mi parlò pure di un magistrato che collaborava poco all’indagine e che sarebbe stato invitato a cambiare area. Fatto che avvenne. Mi fece capire che lui era dei servizi e mi fece intendere che avrei potuto collaborare essendo stato un ex ufficiale dell’Esercito. Io ironizzai su questa proposta asserendo che la mia occupazione era la Vela e che per hobby facevo il dermatologo.
Gli dissi anche se mi autorizzava a riferire a Paolo quanto mi aveva detto e ho ricevuto una risposta affermativa. Ne parlai con Paolo su quanto mi era stato riferito. Lo sentii scettico perché ne aveva sentito parlare anche lui e che tutto era inverosimile.
Accuse senza prove. Non so se fu sottovalutato l’episodio comunque da queste vicende nacque l’avventura giudiziaria di Paolo.
La ‘ndrangheta non è una associazione segreta, anzi, per espletare il suo potere criminale deve essere conosciuta da tutti. Tutti sanno chi sono e dove esercitano il potere coercitivo. Tutti sono a conoscenza del potere mafioso e i limiti geografici dove viene esercitato, meno coloro che dovrebbero saperlo. Questo genera nel comune cittadino il dubbio che se la repressione da parte dello Stato non avviene è un problema di vigliaccheria, di stupidità o di un patto scellerato. I cittadini poveracci sono solo spettatori a volte vittime dello Stato o della mafia. Ci fu un momento della storia della Calabria che vi erano cinquemila “diffidati”. Un esercito di sventurati, spesso semplici braccianti, e nello stesso tempo i capi della criminalità accrescevano il potere economico.
Mimì Caputi, fu un mio grande amico con cui ebbi una frequenza familiare. Era un magistrato, erede di una famiglia di professionisti prestigiosi. Era un conservatore illuminato. Si riteneva collocato a sinistra. Non parlammo mai del suo lavoro e non fu mai protagonista mediatico telegenico. Si ammalò di tumore polmonare e di tanto in tanto mi voleva incontrare per avere la mia compagnia. Mi domandava sempre del Circolo Velico di cui era innamorato come me. Prima di morire mi fece chiamare dalla moglie e per la prima volta si aprì sulla sua professione di magistrato. Si era dimesso da qualche giorno. Mi fece delle confessioni. Mi chiese di non rivelarle. Era amareggiato per il trattamento ricevuto con delle intercettazioni che aveva subito. Sul mio ultimo colloquio con Mimì, non avendomi autorizzato a riferire il contenuto, rispetto la consegna del silenzio.
Umberto Pirilli
Gazzetta del Sud 16 aprile 2021
Processo gotha: il giovane eurodeputato offre la sua versione dei fatti.
L’ex presidente della provincia racconta la sua verità: ho saputo dalla gazzetta di essere indagato. Non ho ricevuto alcun avviso dalla magistratura e sono ancora incredulo. Ma intanto vi spiego……
PIRILLI: IO, FRANCO FREDDA E PAOLO ROMEO.
Pirilli, Freda e Romeo. Un triangolo con il cuore che batte a destra, che è tornato di attualità giudiziaria nel procedimento del processo Gotha. “Ho appreso dalla gazzetta del sud di essere indagato per reato connesso ma io ancora non ho ricevuto alcun atto dai magistrati, sicchè ho deciso di raccontare a voi la mia versione dei fatti”, afferma Umberto Pirilli, una delle menti più brillanti della destra regina. Ottant’anni compiuti lo scorso settembre, Pirilli è stato acuto avvocato e docente di diritto civile all’Università di Messina con la passione per la politica con un cursus honorum sterminato (consigliere comunale a Messina, presidente della provincia di Reggio, consigliere regionale, euro deputato e coordinatore regionale di AN). Ieri, è venuto in redazione per raccontare la sua verità su quei fatti su cui sta discutendo tutta la città dopo le dichiarazioni spontanee di Paolo Romeo davanti al tribunale e la reprimenda del sindaco Giuseppe Falcomatà in consiglio metropolitano.
Onorevole Pirilli, quando ha conosciuto Franco Freda?
L’ho conosciuto a Vibo, dove era cliente di una tipografia che io ho rilevato insieme con il professore Renato Caminiti, poiché avevamo intenzione di creare un polo culturale con una grande casa editrice. Il progetto prevedeva l’acquisto di quella tipografia di Vibo e il trasferimento a Villa San Giovanni in locali adeguati.
Che ricordo conferma di Freda?
Era in attesa di giudizio a piede libero e frequentava quella tipografia Vibonese perché li stampava tutti i lavori della sua casa editrice. Non ho mai parlato di politica con Franco Freda, però si stabilì tra noi un rapporto di cordialità. Nel tempo, avvicinandosi la conclusione del processo mi manifestò il suo convincimento che sarebbe stata emessa una sentenza di condanna nonostante egli si dicesse innocente. Tale sua convinzione era fondata sul movente politico che chiedeva come capro espiatorio un uomo di destra. Mi chiese se poteva essere ospitato per un mesetto perché voleva valutare bene gli effetti della sentenza.
E lei cosa rispose?
Gli chiesi solo se poteva garantirmi la sua estraneità ai fatti. Lui mi giurò la sua innocenza e sul suo onore e sulla madre, tant’è che alla conclusione della lunga vicenda è stato assolto.
Che cosa decise?
consultai con il mio amico avvocato Benito Infantino, del nostro stesso orientamento politico, il quale mi disse dispiaciuto di non poterlo ospitare personalmente e mi suggerì di parlare con Paolo Romeo, mi diede il suo numero di telefono.
Lei gli telefono?
Contattai Romeo e lui fu subito disponibile, anche in maniera goliardica, si sentiva onorato perché anche lui riteneva Freda innocente e in più era un personaggio vicino alla destra. Comunicai successivamente a Freda la disponibilità e gli diedi i riferimenti di Paolo Romeo.
Dunque conferma la versione di Paolo Romeo?
Io dico la verità. Si è trattato di un atto di solidarietà umana e politica nei confronti di un soggetto, autore sicuramente di stragi di cuori essendo molto apprezzato dal gentil sesso.
Quando conobbe Paolo Romeo?
L’ho conosciuto all’università di Messina a metà degli anni 60. Lui era una matricola quando io ero al vertice del FUAN, organizzazione degli studenti di destra di cui ero presidente fin da quando ero matricola. Lo conobbi e lo apprezzai perché era simpatico e intelligente ma dai tempi universitari non lo avevo più visto.
E poi avete avuto la frequentazione degli anni?
Raramente. In un’occasione mi è venuto a trovare sottoponendo nella sua situazione aveva subito alcuni processi dai quali era uscito indenne, tranne quello che riguardava proprio Freda perché pensava su di lui l’accusa di averlo fatto su richiesta della ’ndrangheta. Mi chiese se fossi disposto a testimoniare la verità. Gli risposi che della verità non ho mai avuto paura è che ero disposto a farlo.
Ha raccontato tutta la verità?
Il valore della verità e diventato del nostro tempo un disvalore. Oggi il vero diventa falso e il falso verosimile. L’opinione diventa verosimile e il verosimile, che è l’opinione, viene diffuso dai media diventando per i più verità. Le fake news abbondano creando danni e cadaveri. L’illusione di potere creare la verità partendo dalle opinioni determina il dismetabolismo della società e la sua inconsapevole fuga verso il non essere.
Crede nella giustizia?
Per me non è l’utile che traggono le parti della legge, il cui limite è il diritto, e la cui forza è la sua libera interpretazione. Per me la giustizia è l’utile del cittadino altro, della comunità che vive e lavora lontano dai palazzi del potere.
Lei ha sempre rispettato la legge?
Io non sono mai venuto meno ai miei principi ai miei doveri restando sempre un uomo libero con l’ovvio esito di essere inviso ai potenti. Esprimere liberamente il proprio pensiero, cosa che ho sempre fatto, comporta uno stile di vita corretto ed esente da ogni allettante scorciatoia. Solo in un caso io ho scientemente violato la legge: un clamoroso errore giudiziario, dove la persona tradotta in carcere è stata riconosciuta estranea ai fatti dopo circa tre lustri. Una persona perbene di specchiate virtù come tutta la sua famiglia. Dopo la detenzione di pochi mesi non torno più se stesso. Ogni notte sognava i carabinieri e gridava “sono innocente”. Si suicidò dopo la notizia tanto attesa. Una famiglia distrutta che io sentii il dovere di aiutare venendo meno in quell’occasione sono in quella, di compiere un atto che per altri è ordinaria amministrazione. Per me è stato un atto di vera giustizia.